Non sono più due, ma una carne sola

(Il Cardinale, con la scusa che non parla bene l’italiano, mi lascia fare l’omelia).
Il Vangelo che oggi abbiamo ascoltato è un Vangelo rivoluzionario, perché in un mondo in cui l’uomo decideva tutto sulla donna, Gesù ricorda invece la grande dignità della donna, afferma l’uguaglianza tra l’uomo e la donna, a partire, come avete sentito, dal libro della Genesi, prima lettura.
Nella Genesi non si sente mai la voce dell’uomo, fino al momento in cui l’uomo riconosce la donna “carne della sua carne, ossa della sue ossa”. È la prima volta che si sente la voce dell’uomo.
Cosa ci dice la Scrittura? Che “di due è fatta una carne sola”.
Ricordiamoci che noi siamo fatti a immagine e somiglianza di Dio. In Dio: Uno più Uno più Uno, la Trinità, uguale Uno. Così nella coppia: uno più uno fa uno. E questo è meraviglioso perché ci ricorda tutto quello che il Signore ci ha insegnato. Il Signore ci ha insegnato che noi, quando siamo insieme, non siamo l’uno accanto all’altro in una coppia, ma siamo uno per l’altro. Uno per l’altro.
Vi ricordate del perché abbiamo il croiefisso in tutte le chiese? Perché è l’insegnamento più grande di Gesù: amare significa dare la vita. Nel matrimonio, l’uomo e la donna danno la loro vita all’altro, in questa comunione. E, se tante volte i matrimoni non funzionano, è perché tutti e due, o l’uno dei due, non riesce a dare se stesso all’altro. Non riesce a dare la sua vita. Cioè non riesce a volere il bene dell’altro prima del proprio.
La coppia, e poi la famiglia, è una meravigliosa palestra d’amore, proprio perché dovrebbe obbligarti a volere bene all’altro, a volere il bene dell’altro prima del tuo.
È per questo che la Chiesa considera fondamentale la famiglia, come alla base della società: perché è lì che impari ad amare pienamente. È lì che impari a donarti all’altro. Questo è tutto il senso delle Scritture di oggi.
Abbiamo anche sentito che I discepoli rimangono stupefatti da quello che viene detto da Gesù su matrimonio e adulterio; e gli fanno molte altre domande tornando a casa. E abbiamo poi sentito che, vedendo che gli vengono portati dei bambini, i discepoli cercano di impedirlo e che Gesù, indignato, dice: “Lasciate che i bambini vengano a me. Chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino,, non entrerà in esso”. Come mai a questo punto Gesù pone l’attenzione sui bambini? Per la loro capacità di fiducia. Alla base di tutto c’è la fiducia! Così come nella coppia, nell’amore non può non esserci la fiducia.
I bambini sono diventati l’esempio che Gesù mette al centro, non certo perché siano più maturi o più perfetti degli adulti, non è così. Noi sappiamo perché un bambino sa dare fiducia a chi lo ama: perché da piccolo non può fare niente senza la persona grande che si occupa di lui. Noi adulti, invece, crescendo, tante volte ci siamo dimenticati di chi ci ama veramente, totalmente, incondizionatamente, che è Dio. Invece di prendere l’esempio dai bambini che danno fiducia a chi li ama, noi con quel Padre che ci ama, facciamo i difficili: ci mettiamo al centro e mettiamo lui di lato. E più mettiamo Dio di lato, più mettiamo noi al centro. E più l’uomo si mette al centro, più schiaccia l’altro, perché al centro deve esserci lui!
Capite allora che le letture di oggi ci ricordano che noi siamo immagine e somiglianza di Dio e siamo chiamati a donarci?
Non c’è altra vocazione che la vocazione cristiana. Ed è bello così. Ed è quello che esprimiamo anche quando celebriamo l’Eucaristia.
Questa settimana l’abbiamo dedicata all’Eucaristia. Ogni sera il gruppo della parrocchia anima la preghiera dell’ultima ora tra le 21 e le 22. Abbiamo voluto così mettere Gesù Cristo al centro dell’azione pastorale: questo era importante.
Ma la vita eucaristica non significa che io faccio l’adorazione e poi torno a casa e mi comporto egoisticamente. La vita eucaristica ha un senso molto più grande: è il donarsi.
Quando noi celebriamo l’Eucaristia cosa celebriamo? Il sacrificio, la morte di Gesù e la sua Risurrezione. Noi siamo chiamati a vivere proprio questo! Noi nel Battesimo, lo sapete benissimo, siamo morti al peccato per risorgere con Cristo.
Ma tutta la nostra vita è questo. Una vita di dono di sé, per la Risurrezione, per la nuova vita. Ed è questo che noi celebriamo su questo altare: noi, su quest’altare, mettiamo la nostra vita; i doni, le nostre offerte sono simbolo del frutto del nostro lavoro, della nostra vita. Noi lì offriamo la nostra vita, vogliamo mettere la nostra vita lì.
Vi vorrei leggere la testimonianza di don Raul, che avrebbe dovuto parlare qui, alla fine di questa mia omelia. Don Raul è questo nuovo sacerdote che viene dal Nicaragua. Da ieri è ricoverato di nuovo al Gemelli perché ha una pancreatite che non è stata curata quando era in carcere. Ma ha già lasciato scritta la sua testimonianza, che vorrei leggervi ora, alla fine di questa settimana eucaristica.
Buongiorno a tutti.
Io sono don Raul Antonio Vega González.
Appartengo alla diocesi di Matagalpa in Nicaragua. Sono qui per parlarvi della mia esperienza personale ed eucaristica durante i giorni in cui sono stato ingiustamente imprigionato in Nicaragua. Posso dirvi con tutto il cuore che ciò che mi è mancato di più, durante sei mesi di prigionia, è stato non poter ricevere quotidianamente il santissimo corpo di nostro Signore.
Ero totalmente scollegato dalla realtà in una cena di isolamento, di tortura, abbandonato nel silenzio del nulla, cercando di incontrare quel Dio che ha sofferto nella sua stessa carne l’ingiusta condanna degli uomini.
Ricordo che pregavo molto ogni giorno, non chiedendo la libertà, ma offrendo un’intenzione personale attraverso la preghiera e la prigionia. In uno di quei giorni ho chiesto a Dio di darmi la grazia di ricevere il suo corpo.
Il problema era che non sapevo come fare perché la dittatura ci proibiva tutto. Ero solo, in una cella in cui ero imprigionato, senza poter accedere a nulla. Ho iniziato a offrire sette rosari ogni giorno per quindici giorni, chiedendo a Dio che mi permettesse di ricevere la comunione.
Per le visite in carcere potevo vedere mia madre solo una volta al mese e, quando lei arrivò, ho condiviso con lei il bisogno che avevo di ricevere la comunione. Le chiesi se avesse il coraggio di portarmela, perché era una cosa molto rischiosa, che avrebbe significato il suo arresto, se la polizia avesse trovato il corpo di Gesù, dato che la dittatura di Ortega Murito, per tutto il suo odio, ci aveva proibito di riceverlo. Con tutto il pericolo che comportava portare il corpo di Cristo, mia madre mi rispose di sì.
Allora, mentre aspettavo il mese prossimo, io desideravo grandemente quel giorno e pregavo moltissimo. Arrivato quel giorno, mia madre arrivò alla prigione avendo coperto il santissimo corpo di Cristo con un piccolo purificatore, nascondendolo tra il suo seno e il reggiseno. La polizia la perquisì tutta. Ma miracolosamente non sono riusciti a trovare nulla.
Allora lei andò, dal cancello alla prigione, per circa quattro chilometri in una macchina della polizia.
Quando arrivò dove mi trovavo, mia madre mi abbracciò e mi disse: “Sia lodato e ringraziato in ogni momento” e io rispose: “Il santissimo e divinissimo Sacramento”.
Subito ho capito che Gesù era riuscito a superare gli ostacoli e le barriere che molti su questa terra ponevano sulla sua strada; e che la sua grazia sacramentale nessun uomo su questa terra può fermare.
In questo indimenticabile abbraccio mia madre mi disse anche: “Ti ho portato questo fazzoletto. Goditi, figlio mio, la delicatezza che viene a te in esso”. Lo mise sulla mia bocca e feci la comunione.
Oggi, come quel giorno, posso ripetere:
“Sia lodato e ringraziato in ogni momento il santissimo e divinissimo Sacramento”.
Grazie mille.